«Guardo i miei pazienti e mi faccio tante domande sulla loro situazione di vita e su cosa potremmo fare di più. A volte bisogna solo stare ad aspettare che arrivi il tempo della guarigione. Che fatica accettare tutto questo! Sembra di non essere all’altezza della situazione, di non essere capaci di fare bene. Ma in fondo quello che conta è che loro si sentano amati. Anche questo aiuta a guarire. Essere balsamo per le loro ferite è quello che chiedo ogni giorno al Signore. Olio che lenisce e fa stare meglio. Sempre pronta, con il desiderio di lavare i piedi a questi amici ospiti, proprio come ha fatto il Maestro ai suoi».
Così scrive suor Roberta Pignone, missionaria dell’Immacolata e medico, che dal 2012 è direttrice del Damien Hospital di Khulna, una città di circa 2 milioni di abitanti nel delta del Gange, una regione molto povera, ma soprattutto molto segnata da contraddizioni, diseguaglianze, ingiustizie e sofferenze. Il Damien Hospital è l’unica struttura specializzata, in tutto il Sud del Bangladesh, nella cura di malati di tubercolosi, lebbra e di persone co-infette da Tbc e Hiv/Aids. Ed è qui che questa dinamica missionaria – nata a Monza 52 anni fa e diventata religiosa nel 2006, dopo la laurea in Medicina – si è rimessa totalmente in gioco, a livello personale e professionale, aggrappandosi alla sua fede – in un Paese quasi esclusivamente musulmano dove il dialogo si fa solo con la vita – e mettendo in campo le sue competenze, per lottare contro la tubercolosi che toglie il fiato e la lebbra che consuma le membra. Due malattie fortemente stigmatizzanti, soprattutto la lebbra, che si mangia i corpi e deturpa i visi, che distrugge le relazioni e si accanisce come la peggiore delle maledizioni. Dichiarata debellata nel 1998 dall’Organizzazione mondiale della sanità, la lebbra è presente ancora oggi nel vissuto quotidiano di suor Roberta e di tante altre persone che in varie parti del mondo continuano a trovare e curare sempre nuovi casi. È la «malattia dei poveri, della malnutrizione e della sporcizia», dice suor Roberta, così come la tubercolosi, che trova terreno fertile anche nel pregiudizio e nell’incuria.

“Incuria” che è proprio il contrario di quello che suor Roberta offre: ovvero “cura”. Fatta sì di medicine e ricerca scientifica, di esperienza e professionalità, ma anche di affetto, amore, compassione, dedizione. Anche di arrabbiature e fatiche, di senso di impotenza o scoraggiamento. Perché quando ci si prende cura non si può rimanere indifferenti o “neutrali”, neppure di fronte alle tante ingiustizie e paradossi che spesso sono più gravi – e quasi sempre sono all’origine – della malattia stessa. «I care» diceva don Lorenzo Milani: mi prendo cura perché mi interessa, perché mi sta a cuore. Perché io sono l’altro, anche in un Paese come il Bangladesh, nonostante le differenze linguistiche, culturali, religiose, di genere… Nonostante le incomprensioni e, a volte, i fallimenti.

Succede, e non può che essere così, specialmente quando ci si prende cura di tante donne che non sono solo malate, ma sole, abbandonate, maltrattate, non considerate. Come Modina, ventidue anni, due figli e un marito malato psichiatrico che la picchia; o Sumi, che è viva solo perché il figlio di sette anni è riuscito a fermare la violenza del padre che la stava massacrando; o Litaz, vent’anni, una bambina piccolissima e un marito che in quattro mesi di ricovero non s’è mai visto… In ospedale ricevono cure e amore e forse è proprio quest’ultimo che, a volte, fa ancora più bene, che rende – almeno nel tempo della lunga degenza per seguire la terapia antitubercolare – la vita un poco più bella. «Nessuno ha mai amato i miei figli come stai facendo tu!», le ha detto Saimon, prima di essere dimessa.

Poi ci sono loro, quelli che suor Roberta chiama i “cuccioli”! Ne parla spesso la missionaria, negli incontri, nei messaggi e anche nelle tante lettere che invia ad amici e sostenitori e che ha appena raccolto in un libro: “Balsamo per molte ferite”. Sono i suoi piccoli pazienti o, più spesso, i figli delle sue pazienti che magari passano lunghi mesi in ospedale con le mamme, portando un soffio di vita e ricevendo in cambio un affetto che a casa probabilmente non avrebbero mai avuto. «Sister den!», la chiamano: «Suora dammi!». I bambini le chiedono di tutto e sempre di più. Lei si arrende facilmente. «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date», le ricorda il Vangelo. «Quanto ho ricevuto io! – esclama -. Quanto ricevo e non posso tenere nulla: devo dare in amore, in coccole, in tenerezza!». È la condivisione del dono, che diventa ancora più bella e materna quando avviene con i più piccoli. E quando l’ospedale diventa anche un po’ “casa” e dunque suor Roberta non è più solo medico, ma sorella e madre, che accudisce ma anche “genera”. Desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e, infine, lasciar andare. Ma anche educare, partecipare, innovare, costruire una società più libera, più giusta, più vera, più amorevole. Sono i verbi della generatività. Che, però, costa sempre fatica.

«Ma ne vale davvero la pena?», si chiede ogni tanto suor Roberta, che ammette talvolta di essere «stanca, stanca, stanca, ma… contenta!». Tanto lavoro, tante responsabilità. La sensazione di non fare mai abbastanza o di poter fare meglio. Ma non solo: le tante questioni anche esistenziali che l’essere donna straniera e cristiana pongono in un contesto musulmano e maschilista come quello del Bangladesh; il bisogno di dare una testimonianza cristiana autentica senza poter parlare esplicitamente di Gesù; il desiderio di diventare davvero amica di quella gente, della “sua” gente di Khulna; l’opzione preferenziale per i più poveri tra i poveri, per i malati che vengono in ospedale, ma anche per quelli visitati a casa, negli slum più abbandonati e degradati; l’attrazione per i villaggi e il sogno di aprire un nuovo centro in una bidonville che si è realizzato nel 2021 e che è stato chiamato “Green Land” (“Terra Verde”), terra di speranza. «Sono stanca, stanca, stanca, ma… ce la farò!».

«Si vorrebbe essere un balsamo per molte ferite», ripete spesso suor Roberta, riprendendo le parole di Etty Hillesum, ebrea olandese, morta ad Auschwitz nel 1943. Un balsamo – lo sapeva bene Etty in quella situazione di male assoluto e lo sa perfettamente suor Roberta – è molto più di una medicina, perché lenisce le ferite del corpo e quelle dell’anima, cura non solo i malati ma le persone, sfida il male con la bellezza. In qualsiasi tempo e luogo.

Anna Pozzi, Mondo e missione di gennaio 2024

PAGINE DI SOLIDARIETÀ

“Balsamo per molte ferite” è il titolo del libro fotografico che raccoglie lettere e immagini di suor Roberta Pignone e della sua missione di Khulna. È stato realizzato con la collaborazione di un gruppo di amici per raccogliere fondi per il Damien Hospital, dove i pazienti provengono spesso da gravi situazioni di povertà ed emarginazione.

Copie del libro sono disponibili presso il Centro Pime di Milano (accoglienza@pimemilano.com / 02.438201).

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