Intervista a Sr. Rosilla Velamparambil sul nostro istituto pubblicata nella rivista Missione Oggi, numero di Settembre-Ottobre 2017

 

Sr. Rosilla Velamparambil, 68 anni, originaria dell’India (Stato del Kerala), ha emesso la sua  prima professione religiosa nel 1967. Ha studiato Teologia presso l’Istituto Regina Mundi di Roma, dove ha frequentato anche corsi per formatori. È stata superiora provinciale della Provincia Vijayawada e dal 2000 consigliera generale, quindi superiora generale dal 2006.

 

La storia del suo Istituto è recente. Siete state fondate nel 1936 da Giuseppina Dones e Giuseppina Rodolfi a Milano, su ispirazione del beato Paolo Manna e con il determinante sostegno di mons. Lorenzo Balconi. Ci potrebbe tracciare l’identikit della Congregazione oggi, citando qualche numero?

Siamo un Istituto internazionale, presente nei cinque continenti: Europa (Italia e Regno Unito), Asia (India, Bangladesh e Hong Kong-Cina), America (Brasile), Africa (Camerun, Guinea Bissau e Algeria), Oceania (Papua Nuova Guinea). Il nostro carisma è “la viva passione per l’annuncio del regno di Dio a tutte le genti”. Soprattutto in questi ultimi anni, stiamo approfondendo le caratteristiche del carisma: ad gentes, ad extra, ad vitam. Essendo poi una Congregazione religiosa, è per noi importante la testimonianza del nostro stare insieme come comunità internazionali. Attualmente siamo 908 (di cui 90 juniores), così suddivise: 140 italiane (5 professe temporanee: p.t.), 648 indiane (70 p.t.), 53 bangladeshi (2 p.t.), 45 brasiliane (2 p.t.), 3 cinesi (una p.t.), 3 camerunesi (2 p.t.), 1 guineana (p.t.), 15 papuane (7 p.t.). Le novizie sono 16, di cui una in Italia, 9 in India, 3 in Bangladesh, una in Brasile e 2 in Papua Nuova Guinea.

Oggi il suo Istituto ha assunto proporzioni internazionali, anche se la maggior parte dei membri viene dall’India. Siete comunque presenti nei 5 continenti. Nonostante l’invecchiamento del personale, soprattutto in Italia, è ancora attuale il progetto originario? Molti Istituti missionari, infatti, oggi lamentano una crisi di identità: hanno forse perduto la missione?

Quando siamo state fondate a Milano, nel 1936, condividevamo la visione di missione dell’epoca: lasciare la terra di origine per annunciare il Vangelo dove non era ancora conosciuto. Così la missionaria contribuiva alla diffusione del regno di Dio salvando le anime attraverso l’aggregazione ecclesiale. La dimensione sociale dell’apostolato era vista come un “appoggio” all’annuncio: testimonianza dell’amore gratuito e universale di Dio, pre-evangelizzazione che apriva i cuori dei non-cristiani alla fede in Gesù. Le prime vocazioni non italiane (dall’India prima, poi Bangladesh, Brasile…) chiedevano di “essere missionarie come voi”: annunciare il Vangelo a chi non lo conosce e fare del bene a tutti, a partire dai più poveri e nei luoghi più difficili.

L’aumento di membri non europei, i cambiamenti del mondo e della Chiesa hanno fatto diventare la nostra famiglia “multicolore”. Questo si rispecchia anche nella concezione dell’evangelizzazione. Stiamo vivendo una fase di ricerca, che ci spinge a purificare le nostre idee e posizioni per andare insieme “al cuore della missione”, partendo dal “cuore del Vangelo” (EG 34) e dalla scintilla ispirante del nostro carisma: la passione perché il regno di Dio venga per tutta l’umanità. Il punto fermo, che ci dà gioia, luce e forza, è che la missione definisce quello che noi siamo (discepole e testimoni di Gesù, l’apostolo del Padre, seminatore del Regno e seme di vita) prima e più di che quello che noi facciamo (pastorale, dialogo, attività di promozione umana…), che va adattato ai tempi e contesti per mostrare in modo limpido ed efficace il Vangelo.

Lei ha definito la missione come “apertura” ai sempre nuovi bisogni dell’evangelizzazione, “distacco” e “capacità di lasciare” le posizioni acquisite per essere là dove lo Spirito chiama. Che cosa significa questa “apertura” e questo “distacco” per le Missionarie dell’Immacolata?

Apertura alle nuove esigenze dell’evangelizzazione e distacco per noi significa avere il coraggio di ricominciare sempre dove c’è più bisogno, lasciando posizioni e attività “avviate” e che altri possono portare avanti, nelle quali corriamo il rischio di “adagiarci”. Anche la diminuzione delle vocazioni ci invita a identificare con più chiarezza quali sono le nostre priorità, ridimensionando presenze e attività in modo da liberare persone e mezzi per le frontiere della missione ad gentes.

Apertura al nuovo significa anche avere il coraggio di cercare strade nuove nella pastorale nella carità, obbedendo alla meravigliosa creatività dello Spirito, perché non possiamo più fare “come si è sempre fatto”. Ci ispira Gesù, seminatore della Parola che continua infaticabile il suo cammino evangelizzatore su tutti i campi del mondo “andando in altre città e villaggi’ (cfr. Mc 1,38). Ci consola e sprona la bella immagine di papa Francesco: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze” (EG 49).

Interculturalità, missione ad gentes e inter gentes sono altrettanti punti nevralgici della missione oggi. Come sta cambiando il volto della missione a partire dall’osservatorio privilegiato del suo Istituto?

A mio avviso, la missione sta assumendo un volto più testimoniale, umano e corale. Si dà più importanza all’aspetto spirituale che al fare, perché tutto, vita e opere, testimoni il Vangelo dell’amore misericordioso di Dio Padre che non ha confini. Per questo, più che grandi attività sociali, stiamo scegliendo presenze più piccole, semplici, agili, significative.

Siamo inviate ad gentes, a servizio di una missione che non è nostra, ma di Dio, che si realizza facendosi vicine, incarnandosi tra la gente. In questo senso, la missione oggi è dialogo, relazione, inter gentes, accoglienza e dono di vita. L’evangelizzazione, poi, la vedo sempre più corale: Istituti missionari e Chiese locali cercano di pensare e fare insieme, unendosi in rete e agendo nello stesso tempo a livello locale e globale.

Per noi, la recente presenza in Algeria (2009) è veramente un segno del nuovo volto della missione: tre piccole comunità inserite in un ambiente totalmente musulmano, dove la cura del dialogo nelle relazioni di ogni giorno, la vicinanza umana e l’aiuto in risposta ai bisogni più urgenti della gente sono elementi distintivi, testimonianza profetica dei valori evangelici e della possibilità di vivere in pace e camminare insieme.

So che avete preso la decisione di aprire le destinazioni missionarie anche all’Italia. Quali sono le sfide oggi per la sua congregazione? Potrebbe magari enunciarle per continenti?

Abbiamo preso la decisione di aprire le destinazioni all’Italia in seguito ai cambiamenti socio-culturali e religiosi del paese. Ciò che rappresenta una sfida in questo contesto è l’aumento della secolarizzazione, con l’invito da parte della Chiesa a una nuova evangelizzazione. Siamo testimoni di un cambiamento profondo che riguarda l’Europa, con l’immigrazione di masse di persone da altri continenti.

Ci sono sfide che toccano la Congregazione in quanto tale: avere presenze più piccole, flessibili e interculturali, inserite fra la gente; approfondire la teologia della missione nei diversi contesti; essere segno profetico attraverso il nostro stile di vita e la solidarietà con i poveri; pensare e lavorare insieme per portare a compimento la missione oggi. E poi ci sono sfide più specifiche che ci interpellano là dove siamo.

L’Asia è il continente che sessant’anni fa, ha accolto le nostre prime missionarie, ed è quello che ci sfida maggiormente a lasciare alcune realtà per andare altrove, seguendo Gesù sui sentieri del mondo. Condividiamo le preoccupazioni delle Chiese locali dell’India e del Bangladesh, che considerano come principali elementi della missione la presenza e la testimonianza, a volte unica evangelizzazione possibile; l’impegno per lo sviluppo sociale e la promozione umana, soprattutto quella che riguarda la condizione sociale di emarginazione della donna. In una metropoli come Hong Kong, immenso e frenetico centro finanziario, l’evangelizzazione e l’apertura verso la Cina continentale sono le sfide che incontriamo e a cui vogliamo rivolgerci, in comunione con la Chiesa locale.

In Oceania una delle sfide è il salto generazionale. In trent’anni si è passati da un mondo tribale alla comunità virtuale di internet. Sono passaggi troppo rapidi, difficili da gestire. Poi la sfida rappresentata dall’Aids, che continua a mietere vittime. La droga sta dilagando e sta diventando un rifugio per i giovani che non trovano lavoro e affollano le città. Uno dei settori chiave, che ci sfida e ci coinvolge è quello dell’istruzione.

In Africa, continente che vive situazioni di sofferenza, miseria e guerra, lavoriamo insieme alla Chiesa locale per l’evangelizzazione e la promozione umana, cercando di scoprire i semi del Verbo presenti nelle diverse culture e proclamando i valori del Vangelo che parlano alla profondità del cuore umano, offrendo così un contributo essenziale alla trasformazione della mentalità e all’educazione per far crescere una cultura di dialogo e di pace.

In America, continente dei contrasti stridenti, abbiamo comunità in Brasile Sud e in Amazzonia. Affrontiamo le sfide della crescente globalizzazione, dell’esclusione e devastazione che minaccia l’ambiente, i poveri e le popolazioni indigene presenti sul territorio. La solidarietà, la costruzione di relazioni e la proclamazione del Vangelo sono le sfide chiave della nostra presenza missionaria. Ci sono, poi, altre sfide in particolare quelle che si incontrano nelle zone di frontiera dove ci sono problemi sociali drammatici. Basti pensare ai popoli indigeni, ai minatori, agli immigrati, ai disoccupati, alle vittime della tratta di esseri umani, alle vittime della prostituzione e della droga. La vera sfida per no, è unire le forze per rispondere meglio a queste situazioni.

Il laicato sta assumendo un ruolo sempre più importante, sia quantitativamente sia qualitativamente nella missione ad gentes. Qual e il ruolo della laicato all’interno del suo Istituto?

L’apertura a laici non è accidentale per noi, ma è parte del disegno di una delle fondatrici sin dall’inizio. La ricchezza del nostro carisma si esprime in diverse forme di vita e di missione. Quella dei laici che partecipano al carisma è una realtà che nel corso degli anni è cresciuta e si è sviluppata nelle diverse parti del mondo dove siamo presenti. Essi condividono il nostro carisma attraverso l’attività pastorale e catechetica, l’animazione missionaria, la preparazione dei catecumeni, la pastorale famigliare, l’animazione delle comunità cristiane di base, la pastorale carceraria ecc. In una parola, condividono con noi il desiderio di portare a tutti il Vangelo del Regno.

Possiamo dire anche che oggi abbiamo acquisito nuovi partner nella missione ad gentes. Fino a poco tempo fa tutto era in mano a noi religiose, oggi affidiamo i nostri destinatari anche a collaboratori laici. Per noi questo significa un compito e una sfida in più: oltre alla formazione delle religiose della comunità dobbiamo formare al nostro spirito carismatico i collaboratori. Non per tutte è facile accettare questa situazione di collaborazione quotidiana e responsabilità dei laici. Ecco la vera sfida!

Che cosa ha significato per il suo Istituto l’esortazione di papa Francesco Evangelii gaudium? La “scelta missionaria” di Francesco valorizza o relativizza il carisma del suo Istituto?

Come missionarie, viviamo il pontificato di Francesco come una grande “opportunità”. È il timoniere di una Chiesa “in uscita”. Il suo “sogno missionario” (EG 27) ci stimola ad un maggiore  impegno. Ci sentiamo chiamate a collaborare alla trasformazione della Chiesa perché possa diventare sempre più missionaria, misericordiosa, povera e per i poveri. E che cosa è questo se non il sogno dello stesso Gesù?

La “scelta missionaria” di Francesco valorizza appieno il nostro carisma. La sentiamo come uno stimolo a vivere con maggior impegno di fedeltà ai segni dei tempi e a quanto lo Spirito dice alla Chiesa. Dobbiamo accettare che, con Francesco, noi missionarie ad vitam possiamo vivere meno tranquille di prima. Dobbiamo vivere il suo invito al cambiamento come “un’urgenza”: questo è un tempo privilegiato per la Chiesa. Perciò è necessario agire. La sua proposta deve entrare nelle nostre riflessioni, nella pratica missionaria, nei programmi formativi, di animazione delle comunità ecc. Per noi, questo dev’essere anche un tempo per un’animazione missionaria più audace, gratuita, senza timore di avventurarci su cammini inesplorati. Siamo chiamati a privilegiare l’animazione missionaria, sollecitando le comunità e Chiese locali dove operiamo a guardare oltre se stesse, ad uscire verso le periferie e le frontiere, non solo geografiche.

 Qual è il tema che avete scelto per il vostro Capitolo generale?

Il prossimo anno, celebreremo l’XI Capitolo generale. Il tema scelto è: “Comunità profetiche che annunciano il Vangelo nelle periferie del mondo: percorriamo con coraggio apostolico le vie sempre nuove della missione”. Ci sentiamo in profonda sintonia con il cammino della Chiesa e le costanti sollecitazioni di papa Francesco ad “uscire” verso le periferie dell’umanità. Sappiamo bene che è una spinta interiore non solo ad andare lontano geograficamente, ma ad uscire da noi stesse, dai nostri individualismi, dalle nostre chiusure, dai nostri punti di vista. Il Capitolo sarà un momento importante per discernere gli orientamenti e prendere decisioni per il futuro dell’Istituto, in fedeltà al carisma delle origini, per il bene della missione e dei popoli con cui condividiamo la vita.

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